Vieri Tosatti, Conservatorio di Musica “Licinio Refice”, Frosinone, 1 giugno 1998 (Estratto)

Presentazione del Direttore del Conservatorio di Musica “Licinio Refice”

«Non voglio essere presentato come un musicista di oggi, ma come un autore di ieri»

Amante del paradosso, Vieri Tosatti è un compositore singolare nel panorama musicale del secondo dopoguerra. Giunto al successo nei primi Anni Cinquanta, per quindici anni egli si è impegnato specialmente nel campo del dramma musicale, o comunque in lavori nei quali era essenziale il rapporto parola-suono. Prima e dopo questa lunga parentesi, egli ha comunque prodotto anche importanti lavori nel genere strumentale e vocale da camera. Il suo linguaggio originale, espressivo ma fondato sulla tradizione, lo ha messo in conflitto con gli ambienti in quegli anni più inclini alla sperimentazione.

Ed è proprio per questo che, sulla scia delle analoghe iniziative, che negli anni scorsi hanno mirato alle figure di Goffredo Petrassi e Aldo Clementi, per l’annuale appuntamento dei nostri allievi con l’autore del nostro tempo la scelta, questa volta, si è orientata su Tosatti. Non soltanto perché si tratta di un protagonista a pieno titolo, sia pure di ieri, ma soprattutto perché obiettivo del nostro lavoro, pur privilegiando l’attenzione alle tendenze a noi contemporanee, è al contempo quello di offrire un panorama pluralistico della nostra epoca; in altri termini, un orizzonte ecumenico, se possibile lontano da contrapposizioni preconcette e da tenaci settarismi che hanno già imposto troppi prezzi al respiro e alla creatività musicale degli anni che attraversiamo. Il principio della libertà dei linguaggi è un assioma irrinunciabile: poi, ciascuno di noi esercita le proprie scelte.

E questa pluralità di prospettive si coglierà anche dalla selezione dei titoli preparati dai nostri esecutori: titoli che – non potendo, per ragioni evidenti, documentare il versante teatrale dell’opera di Tosatti – illustrano in tutta la sua varietà e ricchezza l’universo pulsante e comunicativo di un compositore che merita pienamente di essere conosciuto e approfondito dai nostri giovani.

Il Direttore
Francesco Arturo Saponaro

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Conversando con Vieri Tosatti
Intervista di Mauro Mariani

Maestro Tosatti, vogliamo riandare con il ricordo ai suoi inizi di compositore? Qual è stata la sua formazione? Quali i suoi maestri?

Ho compiuto gli studi sia di pianoforte che di composizione in breve tempo, cinque anni in tutto. Per i primi due anni ho studiato privatamente con Dobici, che era un famosissimo teorico e maestro: indubbiamente sarà pure stato un grandissimo tecnico dell’armonia e del contrappunto, ma si limitava ad assegnarmi un monte di compiti e a correggere con la matita rossa le quinte e le ottave parallele, e lì per lui finiva la lezione. Lei capirà che non avevo per niente le idee chiare in fatto d’armonia, ma questo non mi ha impedito di superare l’esame per l’ammissione al quinto anno del corso di composizione al Conservatorio di Roma, e poi di essere non solo promosso al sesto, nonostante avessi frequentato sì e no per quindici giorni (ma erano gli anni della guerra e allora tutto era permesso), ma di fare addirittura il “salto”, passando direttamente al settimo anno. Come insegnante di fuga avevo Jachino, buon musicista, simpatica persona, uomo di mondo, che ci parlava sempre di donne, di cavalli e di roulette, ma non di musica; solo una volta, che casualmente guardò un mio compito, mi disse: “Come metti male i bassi! Se non conosci l’armonia, come puoi pretendere di studiare la fuga?”. Aveva perfettamente ragione. Dopo questo suo discorso sono andato a riguardare i miei errori, ho studiato e mi sono messo a posto con l’armonia, completamente da solo. Capii che al Conservatorio nessuno mi avrebbe insegnato nulla, così col pretesto che avevo bisogno di guadagnare per mantenermi, ho detto che volevo diplomarmi al più presto e nella stessa sessione ho preso il diploma di pianoforte e quello di composizione Poi mi sono iscritto al corso di perfezionamento tenuto da Pizzetti all’Accademia di Santa Cecilia: noi allievi (tra i miei compagni ricordo Zafred, Turchi, Bartolucci) portavamo le nostre composizioni, Pizzetti faceva le sue considerazioni, in genere malinconiche, e la cosa finiva lì. Tutto questo mi ha insegnato che ognuno è il maestro di se stesso.

Ma anche Lei ha insegnato, per vent’anni al Pontificio Istituto di Musica Sacra e per sette al Conservatorio “Santa Cecilia” di Roma.

Sì, ho insegnato, ma malvolentieri, soprattutto al Conservatorio, che ho lasciato appena possibile, proprio perché so d’aver imparato poco o niente dai miei maestri e quindi credo poco alla possibilità d’insegnare veramente qualcosa.
Se non ha avuto dei veri maestri nell’accezione scolastica del termine, ha probabilmente trovato dei maestri tra i grandi compositori del passato, magari vari anni dopo essere uscito dal conservatorio, perché è intorno al 1955 che la critica colloca una sua svolta verso il dramma musicale e quindi verso Wagner.

Non è esatto, perché ho avuto le idee piuttosto chiare da prima: poco dopo il diploma avevo scritto Dioniso, che si rifaceva alla concezione del dramma musicale, quindi era già nel giusto ordine d’idee, però non stava in piedi, quindi l’ho distrutto (e ho fatto benissimo). Poi c’è stato un periodo che si potrebbe definire una marcia indietro, ma che io definirei piuttosto un diversivo, durante il quale scrissi “Il sistema della dolcezza”, che rientra in un altro ordine d’idee, innanzitutto per una specie d’ostentazione nel tornare verso una tonalità decisa e poi per un senso un po’ buffonesco: ma non posso dire che ho tralignato, mi sono soltanto divertito. A questo periodo risalgono anche il Divertimento per orchestra da camera e un paio d’altre piccole cose. Dopo mi sono reimmesso in quella che era la mia vocazione principale, cioè quella del dramma musicale, a partire col “Giudizio universale”, che fu rappresentato nel 1955 alla Scala.

Ma nel 1953, prima del “Giudizio universale” aveva scritto “Partita a pugni”, il suo lavoro più famoso: generalmente viene considerata un’opera, mentre Lei l’aveva definita “dramma da concerto”.

Esatto, ma è stata eseguita tante di quelle volte in teatro che molti si sono convinti che sia un’opera, con mio gran disappunto. Lei penserà che ho avuto un’idea originalissima, quasi paradossale, a scegliere un simile argomento da mettere in musica, ma in realtà io non ci avrei mai pensato ed è stato il mio amico Luciano Conosciani, eccitato dal successo del “Sistema della dolcezza”, a portarmi quel testo. In un primo momento l’ho preso sottogamba, ma poi ha cominciato a interessarmi soprattutto la parte corale, cioè la parte furibonda del pubblico che assiste all’incontro di boxe: lì viene fuori il lato bestiale della gente che assiste a questo spettacolo ignobile, non c’è niente d’ironico o di buffonesco. Il successo fu grandissimo, tanto che nel 1967 ben sei teatri italiani la misero in programma, ma allora pensai: “Adesso basta: è troppo!”, e mandai una lettera a tutti i teatri, proibendo di rappresentare ancora “Partita a pugni”.

Ha già detto di riconoscersi nella concezione wagneriana del dramma musicale, ma m’interesserebbe conoscere come Lei si colloca nei confronti delle maggiori correnti della musica del nostro secolo.

Non mi colloco da nessuna parte. Le ultime cose importanti che secondo me sono state scritte sono le opere di Debussy e Richard Strauss. Prendiamo “Pelléas et Mélisande” di Debussy: lì s’è perso il senso tonale, ma il discorso resta basato sul fatto armonico, per cui sopravvive una specie di reminiscenza tonale, che è quel che ci permette dì gustare di più la estraneità – per così dire – di questo nuovo discorso musicale. Dopo sono successe cose che per me sono al di fuori della musica. Per esempio, Hindemith: nella sua musica il fatto armonico è puramente casuale, sebbene corrisponda esattamente al suo metodo, e non rivela nessuna vera sensibilità armonica. Una sensibilità armonica c’è semmai in Prokofiev e magari in Shostakovich, che io considero un autore minore.

Riferendomi alle maggiori correnti musicali del Novecento, pensavo piuttosto alla storica contrapposizione tra il neoclassicismo di Stravinsky e la dodecafonia di Schoenberg.

Ma niente di questa musica mi quadra. Per me il neoclassicismo è un po’ come andare a prendere le idee nei musei, non ne può nascere una cosa nuova, viva: quindi non mi interessa. Il sistema dodecafonico è un peggioramento di quello che ho detto prima a proposito di Hindemith, che a almeno qualche volta è stato capace di scrivere qualcosa che ti fa drizzare le orecchie, mentre la dodecafonia è il grigio, il niente. Preferisco ricollegarmi agli autori del passato: sono anch’io un autore del passato, sono un sopravvissuto, non per niente a un certo punto ho smesso di comporre.

Il faro per Lei resta dunque Wagner?

Più esattamente il dramma musicale wagneriano: i miei drammi musicali sono costruiti con lo stesso criterio wagneriano dell’aderenza della musica alla parola. Molti però hanno equivocato e m’hanno accusato di wagnerismo, ma è una sciocchezza, perché a me non risulta che ci sia un’imitazione dello stile di Wagner da parte mia.

Però anche Lei usa i “motivi conduttori”.

Certamente, ma ripeto che io adotto il sistema di Wagner, non ne imito lo stile: basta sentire la mia musica per rendersi conto che è ben diversa da quella di Wagner. Qualche volta ho anche citato Wagner, come nel “Sistema della dolcezza”, ma in un contesto umoristico, Perché c’è un matto che parla del paradiso dei cristiani, del giardino delle delizie mussulmano e del Walhalla degli antichi Germani: a quel punto è naturale citare il tema wagneriano del Walhalla. Un’altra citazione da Wagner – di cui però nessuno s’accorge, tanto è ben mascherata – sta in “Il paradiso e il poeta”: sebbene non venga chiaramente detto, il poeta in questione è Poe, l’autore de “Il corvo”, e quindi cito due accordi che nel “Crepuscolo degli dei” ricorrono più volte proprio in riferimento al corvo.

La scelta a favore del dramma musicale significa anche una presa di posizione contro la tradizione melodrammatica italiana?

Sicuro! Il teatro l’ho sempre immaginato come dramma e non come una passerella di cantanti che fanno il loro show, dando vita a una serie di pezzi staccati, prima una romanza, poi un recitativo, poi un duetto e così via. Per me tutto ciò è inconcepibile. Il teatro deve essere teatro, cioè dramma: in questo il mio maestro Pizzetti aveva perfettamente ragione e sarebbe giusto rivalutare le sue opere, perché sono sicuro che siano migliori di quel che oggi si dice, sebbene purtroppo non corrispondano totalmente alle intenzioni, che erano nobilissime. Per Pizzetti erano importanti il dramma e soprattutto l’unione di parola e musica. Ma i musicisti che hanno veramente usato la musica col significato giustissimo della parola sono stati pochissimi: Wagner, qualche volta Verdi, qualche volta Mussorgskij. Lo stesso Debussy nel “Pelléas et Mélisande” cura più le atmosfere che la parola. Meglio allora Monteverdi, che però non aveva coscienza piena di questo fatto. Poi, facendo un bel salto, ci sono i drammi miei.

Se sommiamo l’ammirazione per Wagner al fatto che molte sue composizioni vocali usano testi tedeschi e altre ancora hanno titoli tedeschi, se ne potrebbe dedurre una sua particolare vicinanza alla cultura tedesca.

Sì, ma non è che ne abbia fatto una religione. Ho scritto anche poesie in tedesco, tra il 1970 e il 1980, poi ho smesso, quando scrivere era diventato un problema, perché non vedevo più.

Invece ha smesso di comporre musica già nel 1970, quando il problema della vista non era ancora tanto grave: cosa l’ha spinta a prendere questa decisione così radicale?

Non saprei darle una risposta precisa. Potrebbero esserci due motivi: o uno o l’altro o anche tutti e due insieme. Potrebbe essere che m’accorgevo di produrre una merce senza acquirenti, come se fabbricassi scarpe per una popolazione di pesci, perché ormai aveva preso piede la musica cosiddetta sperimentale e pian piano le cose mie abbandonavano i teatri o piuttosto i teatri abbandonavano le cose mie. Insomma mi sentivo lontano dalla civiltà contemporanea. 0 potrebbe pure darsi che avessi sentito che non avevo altro da dire e che se avessi scritto ancora mi sarei ripetuto.

Ma come è successo? Un giorno ha deciso di dire basta e di non comporre più, oppure…

Non ho deciso, non ho fatto voto di non comporre più. È accaduto spontaneamente. Anzi ho anche avuto una resipiscenza, perché nel 1977 ho composto “Gedichtkonzert” e i sette Preludi e fughe.

Il fatto che lei non compone più è una scelta esclusivamente personale, che riguarda lei solo, oppure s’inquadra in una crisi più generale della musica?

Non saprei: io ho sentito di dover fare così. Ma certo ho l’impressione che di vera musica in questi ultimi tempi se ne sia scritta ben poca.

In questa scelta hanno avuto un peso anche alcune prese di posizione ostili della critica e dell’ambiente musicale ufficiale del tempo?

Non c’è dubbio. A un certo punto s’è diffusa una specie di parola d’ordine contro di me, perché avevo avuto un po’ troppo successo. Intorno al 1953-1954 ero l’autore italiano più richiesto e mi accorsi del livore dei miei colleghi e di tutto l’ambiente musicale: così, quando nel 1955 “Il giudizio universale” fu rappresentato alla Scala, nonostante tutto fosse andato benissimo e tutti all’interno del teatro milanese fossero convinti del successo, lessi esterrefatto le critiche più spaventose, che non m’accusavano di cose precise ma semplicemente mi ricoprivano d’insulti.

Quando Lei ha smesso di comporre, trionfava la cosiddetta musica sperimentale, quindi lei si trovava un po’ isolato. Ma da qualche anno si va in un’altra direzione, lo sperimentalismo è stato abbandonato e i musicisti delle giovani generazioni si dichiarano postmoderni, neoromantici e quant’altro. Non pensa che questo in qualche modo le dia ragione?

No, assolutamente. Era nulla la musica d’allora ed è nulla la musica d’adesso. E poi mi vergognerei di definirmi neoromantico.

Chiaramente neoromantico non è una definizione che le si addica minimamente. Ma lei come definirebbe la musica che scrive, pancromatica?

Non amo molto le definizioni. Tutt’al più posso dare qualche indicazione a proposito della mia concezione tonale: parlerei di pancromatismo… ma no, non è il termine esatto, perché mi fa pensare a qualcosa d’informe alla Skrjabin. È più esatto parlare di tonalità allargata, perché permette anche d’avere delle soluzioni armoniche semplici, o magari due tonalità sovrapposte, o di modulare tanto frequentemente da non star dentro a nessuna tonalità.

L’occasione di questa nostra conversazione è il concerto di sue musiche organizzato dal Conservatorio “Licinio Refice” ed eseguito da giovani davanti a un pubblico di giovani, tutti musicisti in erba: vogliamo allora finire con qualche considerazione sul futuro che attende i giovani musicisti di oggi, anche facendo un paragone con la situazione che ha trovato lei, quando ha iniziato?

Cercherò d’essere il meno pessimista possibile ma non è facile… Sinceramente, quando ho iniziato io, cinquanta e più anni fa, la situazione era migliore di adesso, molto migliore. Allora per un giovane era possibile comporre e far conoscere la propria musica, ora tutte le strade sono chiuse, impraticabili; allora era normale presentarsi a una società di concerti o a un teatro d’opera con una propria nuova partitura e riuscire a farla eseguire, oggi ti guarderebbero come un povero pazzo; allora la Rai faceva regolarmente eseguire dalle sue quattro orchestre musica di giovani compositori e poi naturalmente la mandava in onda, oggi tre delle orchestre radiofoniche italiane sono state chiuse e l’unica superstite ha soprattutto funzioni di rappresentanza, quindi non s’arrischia ad eseguire musica di compositori che non siano già noti e affermati. Non vorrei però scoraggiare troppo i giovani, infatti non sarebbe giusto dire che tutto va male, che tutto è finito, perché la situazione della musica è indubbiamente critica ma questa è una condizione normale nel nostro secolo, che è passato attraverso crisi continue.

 

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Parlando delle musiche
Intervista di Maurizio Mura

Cerchiamo insieme di illustrare gli aspetti salienti delle sue composizioni che verranno eseguite nel concerto a Lei dedicato, seguendo, per quanto possibile, un ordine cronologico; cominciamo con le “Tre liriche greche” del 1944, per voce femminile e pianoforte, su parole di canti popolari greci tradotti da Pio Bondioli. Ha avuto una motivazione particolare per la scelta di questi testi?

Quando ho composto quel lavoro avevo 23 anni, quindi si tratta di una composizione giovanile e per quanto riguarda i testi devo dire che mi è capitato di leggerli, mi sono piaciuti e li ho musicati: quindi non c’è una particolare ragione per la quale li ho scelti.

A proposito della sua realizzazione musicale, nel canto il testo è esaltato, oltre che dalla linea melodica (sostenuta dalla corposa e indipendente scrittura tecnica ed armonica del pianoforte), anche dal rigoroso sillabismo e dalle minuziose pause presenti: possiamo allora far rientrare queste “Tre liriche greche” in quella ricerca di un significato musicale da attribuire alla parola cui accennava riferendosi ai suoi lavori teatrali?

Si, senz’altro.

Noto, infatti, tanto per fare un esempio, che nel primo brano, “Ninna nanna”, sulle parole “come un alto monte” figurano salti che fanno salire la melodia di un’undicesima, mentre subito dopo la melodia scende, sempre di un’undicesima, sulle parole (riferite ai rami del cipresso) “stendonsi da oriente a occidente”. Ascoltando questo pezzo, forse per il carattere solenne e le quinte dell’accompagnamento, ho avuto la sensazione di un clima musicale non lontano da certi momenti di “Madama Butterfly” di Puccini…

Brutta notizia: è un’opera che allora detestavo, anche se adesso la apprezzo.

Questo primo pezzo è pacato, con dinamiche per lo più uniformate sul “piano”, mentre il secondo, “Rimprovero”, evidentemente in sincronia con il carattere del testo, è “agitato” e propone continui e repentini sbalzi dinamici e di tempo; il terzo, “Ancella di Caronte”, dei tre è il più complesso e articolato dato che vi si alternano diversi momenti espressivi…

Si, ed è molto difficile da interpretare perché bisogna sforzarsi di dare continuità ad un discorso che rischia di disperdersi per via dei diversi episodi.

Sempre del 1944 è un altro brano in programma: “La Sonata del Sud”, per pianoforte; a che cosa si deve questo titolo?

Questa composizione da un lato si ricollega ad un motivo autobiografico: all’epoca avevo una fidanzata, ci lasciammo e lei ritornò nella sua terra d’origine, cioè la Puglia; dall’altro è legata ad un mio desiderio di esprimermi in una musica di carattere solare, mediterraneo, popolaresco.

Questo aspetto traspare soprattutto nei ritmi molto marcati ed incisivi, con un uso molto esteso di quinte vuote (tipico tratto della musica popolare)…

Si, ed anche doppie quinte vuote cioè sovrapposte, specie nel secondo movimento.

Nel primo tempo l’indicazione “tumultuoso” che si dà nello spartito esprime bene una notevole aggressività ritmica e sonora, anche arricchita da netti sbalzi di umore: dall’irruento al lirico, dal tempestoso al colloquiale…

È una sonata difficile da eseguire proprio perché bisogna essere bravi a rendere questa varietà di sentimenti.

Il secondo tempo, che ha come titolo fra parentesi “Canzone e processione” propone un carattere più disteso e pacato, anche se nella sezione centrale non manca una breve esplosione fonica, conclusa con un glissando verso le note bassissime della tastiera. Nel terzo tempo si ritorna, in un certo senso, alle alternanze ritmico-dinamiche del primo tempo, anche se il clima è molto diverso, mi sembra più nervoso ed inquieto; le curiose indicazioni qui presenti: “Grasso ed ebro” e ad un certo punto persino “fortissimo sguaiato” cosa stanno ad indicare?

Alludevo ad un clima da osteria, una conferma del carattere popolare di questa sonata.

In questo tempo finale, fra l’altro, l’andamento scorrevole e di tipo folkloristico della melodia ha un’impronta prevalentemente diatonica con intervalli non ampi; ed è strano che faccia capolino, all’inizio e nella penultima battuta, un breve motivo con ampi salti, motivo che nello spartito ha messo, nella prima apparizione, fra virgolette…

Si, ho voluto inserire, per introdurre un ulteriore elemento, oltre alle consuete alternanze tematiche, dinamiche e di tempo, una citazione da Schönberg, anche se non ricordo da quale composizione.

Del 1948 è invece il “Divertimento” per Clarinetto, Fagotto, Violino, Viola e Violoncello, un brano che ha una interessante struttura in cinque movimenti e alcune particolarità…

Si, innanzi tutto, come già ho avuto modo di dire, in quel periodo ho avuto una fase di ripiegamento verso la tonalità, cioè nei pezzi intorno al 1948 ho sentito l’esigenza di esprimermi in un linguaggio tonale più chiaro anche se mai escludendo del tutto una certa ambiguità tonale.

In questo pezzo si nota un bell’assortimento delle scelte timbriche nel primo tempo, con opportune fusioni ed alternanze strumentali, un tempo che ha un piacevole e spiritoso andamento di marcia, mentre il secondo tempo, un “Presto”, è decisamente più scorrevole e vivace; può dire qualcosa sugli schemi compositivi che ha adottato?

Il primo tempo è vagamente di struttura sonatistica, mentre il secondo è nello schema dello Scherzo classico; piuttosto c’è da rimarcare, a proposito di alternanze timbriche, il fatto che il terzo tempo è per i soli tre archi, mentre il quarto per i soli due fiati.

Il terzo tempo è un “Lento nostalgico”: forse la scrittura per soli archi vuole essere un omaggio ‘nostalgico’ per la musica del passato?

No, non pensavo a quello, volevo solo esprimere un senso di mestizia e malinconia.

Il quarto movimento, “Allegretto”, ha una scrittura che può essere accostata alle Invenzioni a due voci, ed il senso contrappuntistico è ancora presente nell’ultimo tempo, una fuga preceduta da un’introduzione il cui tema è lo stesso del terzo tempo…

Si, prima di concludere con una fuga piuttosto completa, con tutte le ripercussioni tematiche e gli stretti del caso, ho voluto ritornare a quel tema per dare una maggiore coerenza al discorso.

Consideriamo ora il “Quartetto d’archi”, del 1968: può dirci qualcosa su questa composizione?

È un pezzo a cui tengo molto, una delle cose migliori che ho fatto.

È in tre movimenti: il primo è un “Tranquillo-Con moto” seguito da un “Giocoso ma pesante” e da un “Lento” conclusivo. Questa presenza di un tempo finale lento costituisce una scelta meno praticata dai grandi autori del passato rispetto alla scelta più classica di un tempo finale veloce; che valore attribuisce a questo tempo finale?

Innanzi tutto ci sono esempi importanti di brani del repertorio sinfonico che hanno il movimento finale lento, valga per tutti la Sinfonia “Patetica” di Ciajkovskij; c’è da dire poi che questo tempo finale di tutti e tre è quello che ha la struttura più interessante: il primo tempo, più o meno ha la consueta struttura di forma-sonata, con le debite licenze; il secondo tempo ha la struttura dello Scherzo mentre il Lento conclusivo ha una forma che ho già usato in altri casi – ad esempio nel finale della “Deutsche Sonate” – cioè una tecnica di variazioni molto amplificate con in più, in questo caso, l’inserimento del tema del primo movimento amalgamato all’interno di una delle variazioni.

Parliamo ora della raccolta “Einsamkeiten” (Solitudini) quattro Lieder per voce e pianoforte, del 1969; i testi sono tratti da poesie di Nietzsche, Holz, Hölderlin. A cosa si deve questa sua scelta?

Erano testi che mi interessavano e li ho scelti perché li accomuna il tema della solitudine.

Quali sono gli aspetti poetici che secondo lei emergono da questi quattro testi?

Nel primo il doloroso isolamento di chi sta troppo in alto rispetto agli altri, nel secondo l’allucinata visione di un sogno, nel terzo la solitudine di Buddha, fra il mistico, lo scanzonato e l’autoironico, nel quarto lo sconforto e l’assoluta desolazione: del resto era l’ultima poesia scritta da Hölderlin, in preda alla più assoluta follia eppure poeticamente lucido e intenso.

Considerando ora la sua interpretazione musicale di questi testi si nota una continuità fra i brani, dato che c’è una nota comune fra la fine di ciascun pezzo e l’inizio del successivo.

Si, sono collegati fra loro.

La sua musica sembra esprimere un senso di inquietudine e di tormento, soprattutto per l’asprezza sonora di un senso tonale decisamente offuscato.

Il senso tonale qui presente lo definirei incerto, ambiguo e cangiante.

Mi sembra molto accentuata la sensibilità accordale e armonica, mentre nella linea del canto si trovano a volte intervalli di difficile intonazione, come le settime aumentate e diminuite e le seconde aumentate del primo e del terzo pezzo.

È l’armonia che determina la scelta degli intervalli melodici.

Noto che le indicazioni dinamiche del canto sono limitate al piano e più piano mentre il “forte” compare solo, credo significativamente, per l’intonazione di alcune parole: “Ich warte auf den ersten blitz” (“Io aspetto il primo fulmine”) del primo brano; “Über mir stehn die Sterne” (“Sopra di me sono le stelle”) del terzo brano; “Wohin den ich?” (“Verso dove io?”) il verso conclusivo del quarto pezzo.

Per il pianoforte le dinamiche, molto varie, sono indicate dettagliatamente, mentre per il canto le affido al gusto dell’interprete, pur prescrivendole, esigendo la dovuta intensità, per il canto di quelle parole che lei ha evidenziato; tengo a sottolineare che l’ultimo verso da lei citato – “Wohin den ich?” – , di difficile traduzione in italiano (è un moto a luogo) lo ho aggiunto io, traendolo da un’altra poesia di Hölderlin.

Potrebbe essere accostato, per questi quattro suoi Lieder, all’espressionismo?

No. Preferisco definirmi “senza etichette”.

Parliamo ora del “Concerto Iperciclico” per clarinetto, un lavoro del 1970 del quale lei stesso fornisce come premessa alla partitura una ‘Notizia tecnica’ nella quale spiega che: “La particolare costruzione di quest’opera sintetizza in un unico tempo di struttura ternaria quelli che potrebbero essere i tre consueti movimenti di un Concerto per solista e orchestra e identifica cioè la grande costruzione tripartita di un intero Concerto con lo schema tripartito che usualmente viene adottato per il primo tempo di esso”. Data la sua passione per Wagner, si può dire che l’elaborazione ciclica dei temi si può ricollegare ai “Leitmotive” wagneriani?

No, nel teatro c’è una ragione ‘drammatica’, extramusicale, qui il ritorno dei temi ha un significato strutturale; se proprio vogliamo trovare una derivazione possiamo riferirci a Franck.

Perché Concerto “Iperciclico”?

Perché è più che ciclico e spiego il motivo: nella forma ciclica sappiamo bene che nei vari tempi della composizione ritornano i temi già presenti nei tempi precedenti; nel mio lavoro abbiamo, dopo un’introduzione lenta, una prima parte veloce, poi una parte centrale lenta, con la prima parte veloce che fa da esposizione e la parte centrale che ha funzione di secondo tempo ma anche di sviluppo, perché oltre a proporre i suoi temi sviluppa i temi già sentiti nella prima parte, e infine una terza parte di nuovo veloce che fa da ripresa del primo tempo e insieme da terzo tempo. Quindi ognuno dei tre tempi contiene i temi propri e (il secondo e il terzo) anche la ripresa dei temi precedenti.

A proposito dei “Sette Preludi e Fughe” (1977) direi che esiste una coesione ed un’unità fra i preludi e le relative fughe: anche se la doppia barra fa capire dove inizia la fuga, spesso la scrittura tastieristica, fatta di rapidi passaggi in terzine o semicrome, si fonde con la scrittura polifonica e fugata. In altri termini, la tecnica improvvisativa del preludio è amalgamata perfettamente con quella contrappuntistico-imitativa della fuga. Inoltre in ogni preludio è presente il tema poi sviluppato nella relativa fuga.

Esatto.

Di tutti i brani, il n. 2 (dorico) mi sembra il più diatonico-modale, il n. 7 (su un tema dalla sua opera “Il Giudizio Universale”) quello più chiaro dal punto di vista tonale anche per il carattere “trionfale” indicato all’inizio. C’è poi il n. 3 che è su un tema di Bach: mi sembra il tema del Corale, “Nun komm, der Heiden Heiland”.

Sono d’accordo con le sue impressioni sul n. 2 e il n. 7, mentre il tema di Bach da me sfruttato è quello della quarta fuga dal Primo Libro del Clavicembalo ben temperato, anche se le prime quattro note sono uguali a quelle del Corale da lei citato.

Al di là della ripresa del tema è indubbio che per questi lavori pensava in generale a Bach, trattandosi di preludi e fughe; però, dato che la sua concezione, come ha già chiarito, è lontana dal neoclassicismo, qual è il suo rapporto con queste forme di Bach?

Con Bach ho in comune un senso polifonico basato sulla sostanza armonica, ma le mie fughe sono più concise ed essenziali. Bach, ad esempio, nella citata fuga in do# minore sfrutta il tema in modo molto esteso, elaborandolo ampiamente in un lavoro di ben quattro pagine, eppure non ne coglie un aspetto importante: il tema è cromatico e si presterebbe alla tecnica dello ‘stretto’, ma Bach, stranamente, non se ne avvale. La mia fuga, basata su quello stesso tema, è più concentrata e, fra l’altro, utilizza, nella seconda parte, la tecnica dello “stretto”.

Mi è stato riferito che ha scherzosamente definito, sia questi “Preludi e Fughe” che il “Gedichtkonzert”, … ‘pezzi postumi’, forse perché come compositore si considerava morto dopo il 1970 e i lavori in questione sono del 1977.

Si, come le ho già detto, dopo il 1970 ho chiuso, salvo rare eccezioni, e la scelta di comporre preludi e fughe si deve considerare una vera e propria scommessa trattandosi di un qualcosa di completamente diverso ed estraneo rispetto a quello che avevo fatto fino ad allora.

Guardando retrospettivamente la sua parabola creativa, quale è il significato emergente che le sembra di cogliere, cosa ha cercato di esprimere con la sua musica?

Naturalmente ho sempre cercato di esprimere qualcosa di particolare per ogni composizione, ma il significato fondamentale della mia musica – come affermo anche nel capitolo ‘Bilancio 1940-1970’ del mio Saggio “Capitoli scompagni” – è che mai si estrinseca in una direzione precisa, cioè non è mai fondamentalmente ritmica o fondamentalmente melodica o fondamentalmente armonica: c’è sempre una compenetrazione di tutti questi parametri, anche se tutti convergono nella complessiva struttura armonica; in questo convergere, tuttavia, c’è un continuo slittare nell’una o nell’altra estrinsecazione (ritmica, melodica o armonica) il che rende molto difficile l’esecuzione, arduo l’ascolto e a volte il risultato non è così netto come avrebbe potuto essere. Questa caratteristica – che si può interpretare come una qualità o come un difetto – si è accentuata sempre di più, soprattutto dopo il “Requiem” (1963) e cioè da “Il Paradiso e il poeta” (1964-65) in poi sino a tutte le composizioni da camera e sinfoniche che sono venute dopo. Vorrei aggiungere una cosa che riguarda più che altro l’immagine artistica che darete di me: non voglio essere presentato come un musicista di oggi, ma come un autore di ieri, dato che con il 1970, ma forse già da prima, ho chiuso con la composizione. Ci tengo poi particolarmente a non avere né aggettivi né etichette: la mia musica non deve essere definita né tonale, né atonale, né avere altre catalogazioni; semmai si può dire che io mi sento figlio del Romanticismo, ma solo perché sono figlio di mio padre e non di mio nonno…

 

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L’opera narrativa di Vieri Tosatti
di Giampiero Bernardini

La produzione narrativa di Tosatti comprende due gruppi di sette racconti ciascuno. Il primo gruppo, intitolato «Altri paesi», venne elaborato tra il ‘73 e il ‘74; il secondo, intitolato «Nostre avventure», venne ‘dettato’ alla moglie Valeria (perché nel frattempo il Maestro era diventato cieco) nel 1980. Infine il romanzo «Principe Azzurro» venne elaborato nell’arco di dieci mesi nel 1983.

Caratteristica saliente di questi quattordici testi (come anche del romanzo) è la costruzione fantastica – di volta in volta surreale e assurda, magica e grottesca – di fabulae nelle quali è però sempre presente, in varia misura, il fondamento realistico, sia nel tipo prevalente dell’allegoria, che della metafora o dell’apólogo.

Al tipo dell’allegoria di una realtà, per tanti versi abnorme, pertiene il gruppo più cospicuo di questi brani, a mio avviso sette: Anàtrio, Evoluzione, Questione di buon senso e Un altro paese, della prima raccolta; C’era una volta, Il Golpe e L’ora del cimento della seconda. Naturalmente anche all’interno di questa tipizzazione si scorgono sfumature che diversificano – non solo contenutisticamente – un racconto dall’altro. Al genere più scopertamente autobiografico appartiene Evoluzione, che narra di un paese dove si svolgono conferenze denominate “locuzioni”; il protagonista-narrante è all’inizio un locutore che durante una conferenza si strappa inavvertitamente un pelo d’un baffo. Una volta messo in disparte a favore di altri e più moderni locutori, egli capirà che il suo successo era dovuto proprio a quel gesto, più che alle sue capacità. Infatti i nuovi locutori faranno a gara nel proporre conlocuzioni sempre più insensate, sino ad arrivare all’ultimo di questi, che proporrà come novità assoluta il sentimentalismo preromantico del goethiano Werther. È evidente in questo brano l’ironica polemica contro i ‘nonsensi’ degli anni cinquanta-sessanta (e anche settanta) presi sul serio da una critica pigra e complice, nonché una profetica anticipazione dell’odierno ‘neoromanticismo’. Meno direttamente autobiografico e più mordace, è invece Anàtrio, che narra di una sorta di mostro (Anàtrio, appunto) che è il prodotto di una testa, due braccia e un fallo, parti del corpo che sono il meglio dei tre personaggi mutilati in un combattimento per la difesa della loro città. Il mostro assume una sua autonomia e impone nella città un nuovo regime basato sulla repressione. In nome di questo stato di cose, egli manda a morte i suoi “creatori”, scrivendo la sentenza proprio col membro virile, che assurge così a emblema della “nuova era”.

Se alcuni racconti di questo gruppo sono più scopertamente satire politiche (Un altro paese, Il Golpe) o ironica denuncia della fondamentale mancanza di spirito delle varie società (C’era una volta, Questione di buon senso), ve ne sono altri che potrebbero appartenere al gruppo il cui legame con la realtà è più blando. Quelli assurdi, ad esempio tra i quali citiamo A ciascuno il suo, nel quale il protagonista è morto durante la notte, e sulle prime non se ne accorge. Vedendosi poi disteso sul catafalco capisce che la sensazione di vita è dovuta al trasmigrare del suo ‘residuo’ vitale nelle persone prossime: il figlio Lorenzo, la moglie Laura, la zia Messalina ecc. In questo testo – nel quale il gusto per il paradosso e il macabro è spinto all’estremo – si fa esplicito l’influsso dell’amato Edgar Poe, come anche di Kafka e del Buzzati di taluni racconti come E l’erroneo fu, dalla raccolta Il Colombre.

Altri potrebbero definirsi ‘misteriosi’, brani come Diario clandestino e Le notti di Melania, incentrati sulla psicologia femminile, e nei quali – in particolare il secondo – i confini tra realtà e sogno si fanno impercettibili.

Infine Giardino e Casa, due racconti scritti in forma di sceneggiato, grigio, anonimo. Il primo è circolare, finisce come inizia, e delinea nei suoi elementi metafore raggelanti: il giardino è la vita, il cancello è la soglia tra la vita e la morte, soglia che inevitabilmente si varca da soli. Poi, nello stesso punto, o in un altrove, tutto ricomincia uguale, con le stesse parole. Con o senza metempsicosi. La Casa è la vita nella sua pienezza, volerne uscire per cercare un significato è operazione destabilizzante e destinata al fallimento. L’Ospite, tanto nominato e che nessuno ha mai visto in faccia è Dio, «l’eterno mito» come dice il Professore, uno dei commensali dello sceneggiato.

L’altra prova di Tosatti in campo narrativo è il già menzionato romanzo Principe Azzurro. Anche qui ci troviamo di fronte a una premessa surreale e fiabesca: il protagonista del libro, il Principe Azzurro della fiaba di Perrault, esce dal riquadro del libro dove era disegnato, e inizia una nuova vita in una società tardo ottocentesca. Sulle prime l’impatto con la dimensione prosaica del quotidiano è ammorbidito dal fatto di trovarsi in mezzo a gente mascherata per l’ultima notte di carnevale. Poi l’incontro con la prostituta Cleonice, con la quale passa la notte, gli comincia a smussare la sua dimensione fiabesca, per rivelargli in immediata progressione – negli eventi che seguono – una realtà cui sarà difficile adattarsi. Egli, al momento, è un totale sprovveduto, senza identità e senza nome, se non quello generico e fiabesco di “principe azzurro”.

Una estrinseca, sottile assonanza con il celebre principe “Myskin” dell’Idiota di Dostoevskij, accompagna il lettore nei primi capitoli: è solo un’impressione, i personaggi non potrebbero essere più diversi. Il Principe azzurro è la personificazione della pura fantasia creativa, dimensione psicologica affine all’animismo magico dei primitivi e dei bambini; il principe Myskin, secondo le parole dello stesso Dostoevskij, è « […] la raffigurazione di un uomo positivamente bello». Una bellezza totale perché interamente morale, una bellezza derisa e ignara di sé, e che suscita la compassione. Un nome – Edoardo Vallauri – al principe poi verrà dato, e dopo le prime resistenze all’idea, non gli sarà difficile adattarvisi. Avrà anche degli amici, e persino diversi lavori, ma in quello che effettivamente egli è sarà “capito” e creduto soltanto dai bambini. Al contrario, il senso comune e la nascente “psicologia scientifica” lo considereranno un mitomane. Dopo una lunga serie di eventi in cui la grossolanità del reale prenderà il sopravvento, in cui gli sembrerà in un paio di occasioni di ‘riconoscere’ la sua antica ‘Bella Addormentata’ (sull’identità della quale Tosatti lascia la questione irrisolta) e dopo un inutile tentativo di integrazione, il fatale – e un po’ paradossale – scioglimento della vicenda lo troverà in un parco delle meraviglie (una sorta di luna-park) nei panni del ‘Principe Azzurro’ che risveglia la Bella Addormentata (la stessa persona già incontrata) col bacio. Il commento più precipuo a questa soluzione è del migliore amico del principe, Remigio Stazi: «[…] c’è chi la fantasia può viverla, e chi – come me, d’altronde – può solo amministrarla». Commento che è anche il più pertinente alla sostanza del romanzo.

Le poesie in doppia versione tedesco-italiano

Nell’estate del ‘72 Tosatti scrisse trentadue poesie in lingua tedesca, e siccome il gruppo fu compiuto nell’arco esatto di due mesi, prese il nome di «Zweimonatige Gedichte». Negli anni successivi fino all’estate del ‘78, se ne aggiunsero altre, sino ad arrivare al numero complessivo di una settantina. Sul perché dell’adozione della lingua tedesca, l’autore ha dato diverse motivazioni, delle quali in definitiva la più plausibile mi sembra quella più istintiva: non gli riusciva di agire sul terreno lirico con la lingua italiana.

Un decennio dopo però, nell’87, egli operò una scelta di cinquanta poesie, traducendole in italiano e pubblicandole in testo bilingue. Se in alcuni casi fu possibile la traduzione quasi letterale, in altri fu necessario reinventare praticamente il testo; in due circostanze poi, essendo gli originali basati su giochi linguistici ed espressioni peculiari tedesche, egli rinunciò lasciando il testo originale senza versione.

Com’è normale davanti ad una forma d’espressione come la poesia – intesa per lo più nella sua accezione ‘lirica’ – il Tosatti riscontrabile in questi testi è più diretto e sincero che in qualsivoglia altra espressione, fatta eccezione per la musica. Non si andrebbe forse tanto lontano dal vero affermando che per questo autore – come in passato per Schumann e Wagner, almeno a livello intenzionale – poesia e musica siano due facce di una stessa medaglia espressiva. Se è fondata quest’ipotesi, v’è in essa la spiegazione autentica della scelta della lingua: Tosatti in musica, nel periodo successivo al Sistema e alla Partita a pugni, piaccia o no, parla prevalentemente tedesco: se la poesia è il versante cosciente della musica, la sua forma verbale e razionale, egli non può che formularla in tedesco, la sua lingua madre “acquisita”.

Ecco che le tematiche prevalenti sono allora quelle della maturità: la nostalgia di un mondo perduto e/o mai posseduto, che può essere l’infanzia (Kindesqual – Tormento del bambino), oppure il mondo incorrotto dell’innocenza, che può ancora albergare nell’infanzia, o negli animali, o nella tensione verso il cielo degli alberi, che altrove (Bäume – Alberi) in un gesto di risentimento è stigmatizzato come sciocco. Ecco la romantica tendenza verso l’altro (Heilanstalt – Casa di salute) che non trova mai appagamento, che rende stranieri ovunque si sosti per un attimo (Der Lebensfremde – Straniero al mondo), che coglie l’ebrezza nell’essere tagliato in due e doppiamente godere degli umori della terra nell’impressionante Der Regenwurm (Il lombrico).

Questi ed altri i temi di una poesia visionaria e lucida, scintillante di luci o brumosa, animata al tempo stesso da un desiderio di trascendenza e da una lucida scepsi.